Lupi e Agnelli

Recensione

Lupi e Agnelli di Diego Giordano

 

Nessun posto è troppo lontano, troppo anonimo, troppo piccolo o insignificante per il male. Nessun commissario o psicologo di provincia è così tanto provinciale da non poter aspirare a indagare su delitti inenarrabili. Nessun curato di campagna può starsene così tranquillo e pensare di essere immune da certe confessioni inconfessabili, talmente grandi da riempire le mura di una chiesetta di paese a Briatico e sconfinare sino alle alte colonne dei palazzi del Vaticano.

Perché il male, quando aspira ad essere “puro” non guarda la carta d’identità, lo stato sociale, la provenienza, i segni particolari: si serve di ogni “sanpietrino” che c’è sul selciato pur di compiersi nel modo più perfetto.

Ma, come si sa, e come i migliori gialli della nostra storia letteraria e anche giudiziaria ci hanno insegnato, il delitto perfetto non esiste, neanche dietro ad un’organizzazione pedofila che ha ramificazioni in tutto il mondo; ci sarà sempre un “bene” o un “male” (dipende dai punti di vista, come recita la quarta di copertina) maggiore in grado di sgominarla, farla fuori, o sostituirla…più o meno egregiamente.

La storia di Lupi e Agnelli ha sullo sfondo un male di questo tipo, una storia incredibile mista fra pedofilia e corruzione, pensata per posti e gente incredibili nel loro contesto. Il romanzo è ambientato fra Vibo e Briatico, fra il Palazzo del Comune di Vibo e la piccola Chiesa di San Nicola a Briatico, fra la Rocchetta e il porticciolo, le trattorie di provincia e il Servizio di Assistenza Sociale della città ma ha implicazioni in tutto il mondo, dal Vaticano alle missioni dei padri Comboniani.

Il protagonista (il secondo, direi, poiché il primo è il male “relativo” che aleggia dalla prima all’ultima riga) è un commissario dotato di un intuito straordinario, Danderani; poi ci sono i suoi collaboratori che vengono da ogni parte d’Italia, alcuni allevati come figli, per esempio il suo vice Stefano De Angelis, seguiranno le orme del padre putativo, cogliendone i frutti proprio nell’indagine sull’organizzazione pedofila, altri invece saranno meno riusciti, perché non sempre si riesce ad educare i figli a propria immagine e somiglianza.

Un giallo che più giallo non si può (bella anche la copertina, gialla anch’essa, per non sbagliare), che tiene attaccati alle pagine fino all’ultima riga; un romanzo in cui ci sono tanti nomi, tante figure, tante professioni da perdere quasi il conto; il cui inizio è in salita, il corpo centrale disorienta e sul finale ha il suo punto di massima tensione precipitando verso una conclusione inaspettata e insospettata. Un finale che volutamente non elimina quel senso di disorientamento, quella relatività in cui neanche la teologia cristiana e francescana si salvano veramente.

Non ultima una nota di merito: un giallo puro ambientato in una terra di mafia in cui però non si parla di mafia, anche questo inaspettatamente: un taglio letterario insolito e fuori dagli schemi, finalmente fuori dai cliché del provincialismo italiano e meridionale, messo in discussione anch’esso.

Intuito perfetto e sapienza di costruzione per un autore che di professione fa l’avvocato dello Stato, e che ha scelto Briatico e Vibo come luoghi privilegiati per le sue vacanze, dove venire a scrivere, dove saper leggere una realtà complessa come quella di questi luoghi in un modo diverso, dove raccontare personaggi con nomi e cognomi letti e riletti su insegne pubbilicitarie della zona o fra i calabresi incontrati in tante estati passate qui per farli diventare improvvisamente protagonisti.

Va letto anche per questo Lupi e Agnelli, perché non è il solito romanzo commerciale con una copertina ammiccante, è un libro vero, in cui seguire indagini effettuate con i metodi tradizionali: intuito, apertura mentale e oggettività, le stesse doti richieste al lettore per seguirlo.

 

Maria Teresa Santaguida