Neve

Orhan Pamuk: il velo sottile dell’identità turca

“ripetersi della neve

                        che cade

            della neve che cade leggera

            della neve che cade a fiocchi

            della neve che fuma come la nebbia

disperdendosi nella tempesta

                        che imperversa

ripetersi della neve che mi sbarra il cammino

 

Il miracolo del rinnovamento, mio cuore,

è il non ripetersi del ripetersi.”

( Nazim Hikmet, In Esilio)

 

C’è forse qualcosa di misterioso e magico nella neve che cade, raramente, su quella lingua di terra che congiunge l’Asia con l’Europa, in quella neve, bianchissima che ricopre forse solo pochi giorni l’anno Istanbul e le altre piccole città della Turchia…perché quella neve ha regalato al mondo le immagini e le parole di poeti immensi come Nazim Hikmet, e un romanzo, “Neve”, di uno scrittore che finalmente ha alzato la voce di  quell’oceano ignoto di sapienza letteraria e di esuberanza creativa che è attualmente il Bosforo: Ohran Pamuk, premio nobel per la letteratura 2006.

Questi due uomini hanno in comune, oltre alla neve, un evento cruciale della loro vita: le difficoltà con la legge turca, i processi e il carcere: questo perché in comune i due hanno soprattutto l’essere nati in un paese controverso, turbolento dal cui passato e presente attingere a piene mani per scrivere, un paese che va dalle perenni tensioni con i curdi, ai problemi con le popolazioni difficili del sud-est dell’Anatolia, a questioni ancora irrisolte come il genocidio degli armeni, fino alla tanto discussa questione del “chador”.

Un paese che ha chiesto di far parte dell’Unione Europea e che in tutti modi sta cercando di uniformarsi allo stile di vita occidentale…ma con un alto prezzo da pagare: “velare la sua identità”, o almeno nascondere una parte di essa, quella islamica.

Così, mentre fa scalpore il bel libro dell’iraniana Azar Nafisi, “Leggere Lolita a Teheran”, in cui  si smette di frequentare l’università perché ci si rifiuta di mettere il velo, nel romanzo di Pamuk avviene il contrario: le ragazze si suicidano perché il governo modernista e filo occidentale proibisce loro di portarlo nei luoghi pubblici, perché troppo islamico e tradizionale per esistere in un paese che a tutti i costi vuole essere europeo e nei confronti dell’Europa ancora avverte un imbarazzante complesso di inferiorità.

Complesso che tutti nel romanzo dicono di avere contro la ricchezza occidentale anche se ad esso tentano di sottrarsi, nella bocca di un integralista personaggio del libro l’autore mette queste parole: “ L’Occidente, che pare credere alla sua grande invenzione – la democrazia – più che alla parola di Allah, si opporrà a questo colpo di stato che è contro la democrazia? Oppure non sono importanti la libertà, la democrazia, i diritti umani, ma piuttosto che il resto del mondo imiti l’Occidente come le scimmie? L’Occidente può sopportare una democrazia conquistata da nemici che sono completamente diversi da lui?”.

Già,  perché nel romanzo avviene un colpo di stato, ma esso avviene su un palcoscenico, assumendo il tono del teatro e della finzione, “messo – letteralmente – in scena” da una compagnia teatrale che sostiene la laicità dello Stato fondato da Ataturk…una donna brucia coraggiosamente il suo chador in pubblico e scatena la protesta degli studenti del liceo religioso fin quando la serata finisce in sangue.

Il colpo di stato improvvisato “drammaticamente” dalla stessa compagnia teatrale è possibile solo perché la neve, che cade incessantemente da giorni ha braccato Kars, città di confine nell’est estremo della Turchia nella quale è ambientato il romanzo, bloccando le strade ed impedendo qualsiasi collegamento intervento da un governo centrale, che a dir la verità sembra un fantasma che fa solo categoricamente sentire la sua voce attraverso le pagine di un inaffidabile giornale locale.
In tutto questo, tra il boato delle bombe che pian piano distruggono i pochi, abbandonati, palazzi antichi di Kars, e “il silenzio della neve” che avvolge gli strani, quasi grotteschi eventi che stanno segnando la piccola cittadina, si dimena il protagonista: Ka.

Un poeta, appena tornato dall’esilio in Germania, per indagare sui numerosi e consecutivi suicidi di ragazze costrette a togliere il velo nelle aule dell’università, e che caratterizzano da qualche tempo la cornaca di questa surreale cittadina.

Così, da ateo quale aveva deciso di essere per vivere anonimo tra i viali di Francoforte, Ka riscopre la fede in Allah e la ritrova, o almeno così dice, eppure solo una cosa è importante per lui, la ricerca, molto occidentale della felicità, che, dice, è l’unico senso che resta alla vita.

Morirà comunque crivellato dai colpi, forse degli integralisti, forse dei modernisti, nella sua Francoforte dove pensava di poter avere quella felicità assieme alla donna che aveva scoperto di amare sconfinatamente Kars, la bella Ipek.

Eppure a Kars, Ka ha ritrovato anche la poesia, che non riusciva più a produrre da anni, e della simmetria esagonale di quel fiocco perfetto della neve fa lo schema sul quale apporre i titoli delle poesie, e dei momenti passati, dopo tanto, in Turchia, i più importanti della sua vita di uomo e di poeta che ha finalmente ritrovato se stesso.

Un personaggio confuso, Ka, in un periodo confuso avvolto nel biancore della neve che toglie i contorni alle cose. E l’immagine della neve che cade con il silenzio ovattato che contrasta con lo strepito della rivoluzione e tutto quel bianco che sarà poi macchiato di sangue, è forse la cosa più bella del libro, quella che rimane più impressa, come di una indifferenza ambientale, una atemporalità nel vortice degli avvenimenti, una quiete intorno a tutto quel parlare del velo.

Forse la vera domanda sarebbe il perché quelle ragazze vogliono portare il foulard che come dicela Sura24 del Corano, dovrebbe coprire “il loro ornamenti e farle apparire caste” (senza precisare, a quanto pare, di coprire il volto), quel foulard che viene criticato perché sarebbe indossato per asserire un’identità, pur non essendo vietato in nessuno stato nemmeno occidentale di ostentare una identità o appartenenza con un saio o una tunica arancione e la testa rasata.

O se è vero che quell’imparzialità presunta che esibisce invece l’occidente può essere acquisita da uno stato che dovrebbe per questo negare in qualche modo una libertà ad una parte della sua popolazione.

Tutte queste domande restano in sospeso nel libro e anche nel lettore che si trova davanti il dilemma, che è poi quello di Ka, che ruota intorno al confronto tra Occidente e Islam, alla vergogna, alla rabbia, ai tentativi di assomigliare agli occidentali, o di volerli uccidere tutti, in cui “l’unica alternativa la fondamentalismo sembra essere la repressione militare. E viceversa”

Nel frattempo Pamuk, ha dileguato la nebbia che adombravala Turchia dei letterati, ed il 10 di dicembre 2006 è andato a ritirare il suo premio a Stoccolma, riscattando quel suo magnifico predecessore, forse grande escluso da quella ambita effige, e che purtroppo morì con l’amarezza di non aver visto la sua poesia abbracciata dal suo stesso popolo, e scrisse:

le mie poesie sono pubblicate

            in trenta o quaranta lingue

ma nella mia Turchia

            nella mia lingua turca

                        sono proibite”

( Nazim Hikmet, Autobiografia)

 

Maria Teresa Santaguida

 

IL POETA

(disse piangendo la madre di Sayf ad-Dawla e consolandolo della perdita di lei)

Prepariamo le spade siriache e le punte di lancia,
ma il Fato ci uccide senza combattere
e teniamo pronti celeri cavalli di razza,
ma essi non sanno salvare dall’avanzare sinistro delle notti.
Chi mai non bruciò di passione per il mondo?
Eppure non v’è modo di unirsi a lui eternamente!
Di un essere amato hai parte in vita
quanto, nel sonno, d’un fantasma.
Mi ha trafitto il Tempo con tante sciagure
che il mio cuore è ormai in una custodia di dardi,
sì che  quando le frecce mi feriscono,
s’infrangono le punte sulle punte:
così m’è divenuto lieve il sopportarle e ignorarle,
perché dal badarvi non ho tratto giovamento.

Abu al-Tayyib al-Mutanabbi

Secche di cultura collettive

La psicologia collettiva è veramente una brutta storia, è una specie di fiumara, arida nella stagione tranquilla dell’estate, impetuosa e incontrollabile appena un filo di maestrale si scontra con le montagne e provoca una pioggia, un fenomeno imprevisto. Anche in questo caso la fiumara del pregiudizio sotterraneo non ha tardato a tornare in piena, nell’alveo del fondamentale separatismo tutto italiano, sul letto del luogo comune universale. Le reazioni alla ormai supercliccata telefonata fra il comandante della Concordia, Schettino, e il comandante della Capitaneria sono state spesso di un qualunquismo impressionante, tutto indirizzato a sottolineare la provenienza napoletana del primo.
Una specie di determinismo geografico di bassa lega non ha tardato a collegare la viltà dell’operato di Schettino, con la sua napoletanità, quasi che la sua fosse stata una reazione spontanea derivata dallo spirito dell’arrangiarsi e del trafficare che questi sociologi da strapazzo additano a caratteristica del napoletano tipico (estensibile a tutto il sud, ovviamente, tanto le generalizzazioni sono democratiche!). I suddetti sociologi da strapazzo però si sono giusto lasciati sfuggire qualche elemento su cui li inviterei a riflettere. Il primo è di una evidenza disarmante: De Falco è napoletano altrettanto! Ma ormai è diventato una specie di nuovo Garibaldi all’alba del 151° anno della Repubblica, quando, per sua stessa ammissione, ha fatto solo il suo dovere. Primo Punto. Come secondo punto mi piacerebbe ricordare che se una cosa i napoletani la sanno fare bene, beh quella è la marineria (e mi pare che il caso di cui al primo punto ne sia una dimostrazione), basterebbe citare Amalfi perché a chiunque venga in mente la capacità e la modernità in campo di navigazione, che, fin dai tempi del Medioevo, gli abitanti del Golfo possono vantare.
Insomma, ancora una volta i giudizi sommari risultano di un’ovvietà e di un’ignoranza tale da non far ben sperare su un’evoluzione della mentalità italiana in senso di progresso e cambiamento.
Mi pare che l’immagine della costa Concordia piegata a 90° gradi su se stessa e disgraziatamente ancorata agli scogli sia una sorta di ologramma della cultura dell’Italia in recessione economica: ad arenarsi però sono l’intelligenza, la capacità critica e il progresso intellettuale di un paese aperto e affacciato sul mare. Un paese che, fino a mezzo secolo fa poteva ancora chiamare il Mediterraneo “mare nostrum”, mentre ora si rifugia sulle aride montagne  e negli orticelli penosi del qualunquismo.

AR-TE

« Qualcuno in uno di questi posti… mi chiese: “Cosa fai? Come scrivi, come crei?” Non lo fai, gli dissi. Non provi. È molto importante: non provare, né per le Cadillac, né per la creazione o per l’immortalità. Aspetti, e se non succede niente, aspetti ancora un po’. È come un insetto in cima al muro. Aspetti che venga verso di te. Quando si avvicina abbastanza, lo raggiungi, lo schiacci e lo uccidi. O se ti piace il suo aspetto ne fai un animale domestico. »
C. Bukowski

Solo nella creazione si è veramente sicuri di essere unici. Solo nell’opera creata si è sicuri di sopravvivere.
Ed essere dimenticati, cadere nell’oblio è, per qualcun altro, magari, un diritto da difendere.

Pensando al miracolo dell’arte, mi consola nutrirmene ogni giorno. La vita di un classicista si misura ogni giorno con dei piccoli (o grandi) miracoli dell’ingegno umano, che per fortuna o per merito sono sopravvissuti nei secoli. Ingegno e genio, sono causa e conseguenza che si rincorrono e poi arriva il caso a volere che la vita per un’opera prosegua.
Assistere ogni giorno a questo miracolo del destino, della storia, finisce per diventare un’abitudine, un animale domestico da curare.

L’abitudine alla bellezza finisce per soffocare l’ispirazione personale, però?

Nel momento in cui bisogna creare, l’attesa dell’ispirazione a volte diventa lunga e complessa, fatta di sogni convulsi e lunghe giornate davanti ad una tela (o un foglio) bianca (/o), a volte immagini ripetute davanti agli occhi per giorni, che poi al momento buono svaniscono.

<< Se solo avessi avuto la capacità di Vicky di ottenere informazioni sulla realtà, allora sì che avrei potuto scrivere qualcosa. Io devo starmene seduto e aspettare che mi venga l’ispirazione. Quando arriva, posso manipolarla e spremerla, ma non posso andarmela a cercare.>> (C. Bukowski)

Turbe mentali notturne di una mediocre pittrice e mediocre lettrice.

Tipps zum Ueberleben

Dato che per me ormai è assodata l’impossibilità di sopravvivere sana a questa sessione, ma avendo a cuore la questione del ripopolamento mondiale dopo la glaciazione dei fatidici mesi di gennaio e febbraio, vorrei consigliare tre cose che ho imparato in questi giorni di clausura, per uno studio più sereno e consapevole (tutte cose che ovviamente disattendo in modo puntuale).

– L’alienazione dal mondo circostante non aiuta lo studio. Rende nervosi e ipersensibili, le ore non passano mai e la concentrazione, invece di essere, come dice la parola stessa, “concentrata” in tratti di tempo brevi ma intensi, risulta diluita su tutta la giornata e dunque inefficace.

– L’ansia da prestazione deve essere incanalata in grinta nei confronti dello scoglio che si sta per superare, senza tendere a farsi sopraffare. Quando il livello di tensione si innalza, meglio farsi un piantolino, mangiare un bel pezzo di cioccolata, sfogarsi con qualcuno, e poi ricominciare a studiare in modo sereno.

–  Non pensare a tutte le materie restanti, organizzare la sessione in modo accurato per tempo, tante o poche che siano…”andando vedendo”.

Me ne posso andare a letto con la coscienza un po’ più leggera. Notte.

Sbarchi di speranza

Sono stata rapita, stasera, fra una tavoletta micenea e l’altra, da una nota e bellissima trasmissione di Rai3. Come si sa, nulla avviene per caso. Proprio qualche giorno fa, quando ero ancora in Calabria, mi facevo raccontare da mio nonno i giorni del suo viaggio in Australia, lo sbarco, le emozioni di un nuovo mondo, che stavano per me racchiuse nelle parole delle canzoni che mi insegnava quando ero piccola e mi narrava quell’Eldorado. Ma si diventa grandi…per la prima volta mio nonno mi ha raccontato, dopo tanto tempo, anche le difficoltà e le umiliazioni, che, da italiano subì sulle prime al suo arrivo. Per un attimo la voce gli si ferma in gola, poi continua a raccontare le meraviglie di una terra nuova, che dopo 50, dai suoi racconti, ancora mi sembra un paradiso. La voglia di riscatto, nel caso di mio nonno piuttosto la voglia di avventura, sono nel migrante talmente forti, che anche il dolore del parto per rinascere a quella nuova vita, un po’ come nella prima nascita, nei ricordi viene oscurato, tale è la valanga di speranze e sogni con cui si era deciso di partire. Ma le ferite restano. Guardando stasera quel programma parlare dei tunisini sbarcati a Lampedusa, caricati dalla polizia e insultati e umiliati dai lampedusani, ho pianto come se fra di loro avessi visto mio nonno alla loro età. Non posso non essere solidale con quella gente, non piangere, non ammirare il coraggio di prendere in mano il proprio destino e nient’altro, e partire. Vorrei che altri si ricordassero che siamo figli di gente come loro, che ha avuto il coraggio di prendere in mano il proprio destino, e che da figli, oggi, invece, abbiamo assunto il ruolo arrogante di patrigni, non di fratelli. Promuovere il dialogo tra i popoli, principalmente con l’Islam, promuovere la circolazione libera delle persone e delle culture è il compito primario di chi si affaccia alla vita ed è sensibile al mondo circostante. Avere l’umiltà di imparare quel coraggio, quella voglia di vincere, quella scommessa, quel saper perdere, è il minimo che, da figlia dell’emigrazione e io stessa, a mio modo, emigrata voglio sperimentare. Divisa tra l’ammirazione nei confronti della maestria del racconto e la possibilità concreta di fare qualcosa per questo, fermo questa riflessione e la scrivo, anche per mio nonno, che ne sarà contento.

Vicina e lontana

Quelle cose con cui pensi di essere nata e di saper convivere, e che poi, d’un tratto ti lasciano spiazzata: ti si avvicinano talmente tanto che non riesci più a capire quanto siano grandi, sembrano enormi.
Di saracinesche che saltano e di buste anonime troppo pesanti sento parlare da sempre, perché in questa specie di giungla del non Stato ci sono nata, e non  mi fa paura. Ma quando le cose colpiscono così vicino è tutta un’altra storia. Ci sono persone che ti hanno vista crescere e ti hanno guardata sempre con l’occhio di chi ti segue senza giudicarti nell’attesa di vederti sbocciare,  ma senza smettere di essere fari per il tuo cammino. Una di quelle persone, così vicine, oggi, solo perché meglio di altri, sopra di altri, con più coraggio e mitezza di altri ha saputo raccontare quella giungla…è stata “avvisata”. Nella giungla comincia a non esserci più aria per respirare, le radici aeree di questa pianta si sono infittite talmente tanto da non far più passare i raggi del sole.

L’ultima riga delle favole

Dopo qualche tempo di pausa torno a trovare la voglia di leggere e di scrivere di quello che leggo. Torno su questa rubrica che non ho mai abbandonato, dentro di me, del tutto,  un po’ per rendere onore ad un titolo che voglio mantenere attivo e pieno di dignità e che sono molto felice di avere conquistato, un po’ perché l’emozione e l’ebbrezza di scrivere e di sapere che qualcuno legge ciò che scrivi sono piaceri di cui non avrei potuto privarmi ancora a lungo.

Dicevo leggere…attività quotidiana e snervante per qualsiasi studente, più che un piacere, a volte una tortura. Mi era capitato spesso e invano, di ripetere a me stessa una frase di un autore che alla lettura mi ha veramente iniziata, anzi mi ha “costretta” quasi per imposizione (perché dopo parole così l’unica cosa da fare è obbedire) Daniel Pennac: “Dove trovare il tempo per leggere?grave problema che non esiste, il tempo per leggere come il tempo per amare dilata il tempo per vivere”. Ripetevo a me stessa di non smettere mai di allungarmi la vita piegata su pagine ingiallite e macchiate di inchiostro di vario colore ma i doveri a volte soffocano le illusioni e loro si, la vita la rendono breve, insopportabile, sfuggente.

Ultimamente la frase di Daniel Pennac, nel raccontarla a non so chi, mi ha invece salvata e questi due verbi, AMARE, e LEGGERE li ho visti di nuovo coniugati in uno splendido quanto aureo libretto uscito per Longanesi appena un mese fa e già giunto alle 200.000 copie (di cui almeno 4 sono quelle che ho comprato io per regalarlo in giro).

250 pagine di puro godimento, sublimi e retoriche al punto giusto, profonde e leggere…di quella leggerezza che serve a farti tornare il piacere della lettura e letteralmente ti rimette al mondo.

Le librerie sono luoghi strani dove nascono amori a prima vista, ma questa volta anche al tv e i giornali hanno avuto la loro parte visto che il mio amore per Gramellini, vicedirettore della Stampa e autore del volume, è nato, strisciando, a partire dai fondi di pagina con cui ogni giorno delizia il suo giornale, ed è scoppiato in un’intervista che di sfuggita ho ascoltato su Rai Uno in una assonnata mattina d’estate.

La sua penna scorre soave ma mai scontata, originale senza essere “sensazionale” (ché di sensazionalismi sui mass media e in politica ne abbiamo abbastanza) e senza cercare la “trovata”, ma “trovandola” con la naturalezza di uno sguardo sensibile e acuto.

Il protagonista è, ahimè, un mio collega, un laureato in Lettere Antiche, con tutte le caratteristiche salienti del caso: sfigato (mi si passi il termine, ma fa proprio parte della patente del classicista e non potevo ometterlo), infelicemente idealista o illusoriamente realista che dir si voglia, disperato, solo…insomma un perfetto collega, uno di quelli in cui mi specchio ogni giorno fra i corridoi e gli scaffali polverosi della mia vita quotidiana.

Tomás, questo è il suo nome, non ha un amore e non lo cerca, non ha un’anima (se l’è persa per strada) e non cerca neanche quella, eppure si trova a fare un fantastico viaggio dentro se stesso fra bagni in acque putride e vasche dai nomi fantasiosi in cui si sperde; luoghi che non significano nulla in senso letterale ma godono di quell’evanescenza che solo i simboli sanno avere: sono i simboli della propria anima, delle proprie paure, delle proprie fragilità, dei proprio errori da rifare e da dimenticare, dei traumi dell’infanzia.

In questo Viaggio Tomás è costretto dalle circostanze e quest’iniziale costrizione però fa scaturire in lui il Coraggio, il coraggio di vivere e attraversare, bere, vedere, toccare letteralmente la propria anima con tutte le sue ferite.

Ma questo non basta perché la ricerca di Tomás ha un fine ancora più alto: trovare la propria anima gemella, o meglio ritrovarla dopo un incontro fugace e lo strappo di una perdita subita, solo quando la sua anima avrà trovato il coraggio di intersecarsi di nuovo con la sua metà allora anche il suo viaggio, quello vero, quello della vita reale, sarà compiuto, Tomás avrà ritrovato il suo TALENTO (che non dico cos’è per non togliere il piacere di arrivare alla fine) e forse avrà la possibilità di ricucire lo strappo.

L’avventura di Tomás è quella di ogni uomo: soffre di solitudine, che è la condanna dell’essere uno e insostituibile, come ogni uomo è per sua natura, soffre l’illusione della sufficienza a se stessi, affanna per la dolce e fugace illusione della compagnia di un altro. Ma quest’ultima può trovare compimento solo se il “ponte” tra sé e l’altro assume il banalmente complicato nome di…Amore. Allora quella compagnia un’illusione non è più se assume la concretezza di una “creatura che ha bisogno di essere nutrita, allevata, curata”, perché cos’altro è l’amore se non questo?

Che Tomás alla fine riesca o meno a realizzare il tutto, l’importante è che abbia capito; l’importante è che chi legga abbia capito.

Pagine così allungano il tempo per vivere perché gi gettano addosso la vita di altri e ci aiutano a vivere meglio la nostra, e perché a volte ci danno il coraggio di non lasciarci andare all’ “Inaffidabile che ci perseguita da sempre” e ci ridanno la speranza che al mondo non esistano solo “uomini con paura di amare, passioni superficiali, volti sconfitti”. A 22 anni, di questa speranza, oggi più che mai, tanti come me hanno molto bisogno.